Per secoli il gioco è stato visto come un’attività associata unicamente al divertimento e alla ricreazione, prima di dedicarsi allo studio o a cose più “serie”. La sua collocazione era ai margini della giornata scolastica, confinata nella sfera del tempo libero.
In realtà il gioco, in tutte le sue forme (simbolico, cooperativo, individuale o di finzione) assume una valenza educativa determinante nel processo di evoluzione dall’infanzia all’età adulta.
Negli ultimi anni questa attività è stata studiata da filosofi, psicologi, sociologi, ma soprattutto da pedagogisti, i quali hanno cercato di cogliere la molteplicità dei suoi aspetti e delle sue caratteristiche, fino ad arrivare alla seguente convinzione e cioè che il gioco è per sua natura e per suo statuto educante: esso, infatti, è un canale che permette di conoscere il mondo, sperimentare il valore delle regole, stare con gli altri, gestire le proprie emozioni, scoprire nuovi percorsi di autonomia e sperimentare per “tentativi ed errori” le convinzioni sulle cose e sugli altri, aumentando le competenze del bambino in campo affettivo, cognitivo e sociale consolidando la sua identità.
Il compito di analizzare, o quanto meno di cercare di valutare il comportamento dei bambini, non è ad appannaggio esclusivo dei soli studiosi ma deve coinvolgere in prima persona sia genitori che educatori di professione, che attraverso il gioco possono: monitorare lo sviluppo di potenzialità e risorse del piccolo, incrementare il suo benessere psichico, e porre la condizione di base per insegnare turni e regole.
Del punto di vista del bambino, la disponibilità dei genitori a giocare con loro crea entusiasmo: scoprire che possono coinvolgere mamma e papà in un’attività considerata importante, è motivo di grande felicità ed è un modo per consentire di rafforzare il senso di sicurezza e di protezione.
In ogni caso è necessario garantire e restituire ai bambini il tempo e lo spazio per dare libero sfogo a tutte le loro pulsioni interne e assicurare, quindi, una certa complicità, senza svestirsi del ruolo di guide.
Il gioco si manifesta in modi diversi a seconda dl periodo di sviluppo. La diversità di giochi corrisponde ai vari momenti di maturazione della personalità del bambino: durante il primo anno di vita gioca con sé stesso, con il proprio corpo, esegue movimenti che gli procurano soddisfazione, con la propria voce emette suoni, infine gioca con qualsiasi oggetto ripetendo i gesti, cosa che lo rende più padrone di essi, gli insegna a misurare la propria forza e a rendere più precisi i movimenti stessi.
A 15 mesi il bambino svolge attività motorie, getta e raccoglie oggetti, ripetendo più e più volte l’operazione; più tardi, acquisita maggiore padronanza nei movimenti, impara a spostare i giochi da un luogo ad un altro, ad imitare molte cose, come leggere un libro, spolverare, in quest’età il bimbo gioca da “spettatore” o meglio esercita “il gioco solitario”.
A 2 anni vi sono mutamenti nell’attenzione , l’interesse è rivolto alle bambole, agli orsacchiotti di stoffa, alle palline (che il bimbo infila o lascia cadere a terra o all’interno di scatole e bicchieri),alle costruzioni. Non imita le cose che ricorda, ma solo gli avvenimenti che avvengono nel “qui ed ora”.
A due anni e mezzo i bambini affinano i movimenti, hanno bisogno di spazi dove rincorrersi, saltare, giocare con la palla per divertirsi, osare e naturalmente sentirsi liberi.
Data la diversità in funzione dell’età , educatori e genitori devono porsi in posizione di ascolto , assecondando le proposte del bambino, chiarendo i dubbi in merito allo svolgimento del gioco, ”seguendo i passi” e implementando le proposte, trasformando, quindi, l’attività da ludica ad educativa.
di Michela Merlo, Anna Maria Serio, Angela Di Cola